28 giugno 2022
di Nicolò Michielin
Un celebre aforisma di Oscar Wilde recita “la vita imita l’arte più di quanto l’arte imiti la vita”, ebbene quella della nascita dell’Harry’s Bar è forse una di quelle storie in cui la realtà è così intrisa di romanticismo da esser degna delle pagine dei romanzi di uno dei tanti scrittori che avrebbero nel corso degli anni affollato i tavoli di questo locale, una storia iniziata il 13 maggio 1931, giorno in cui Giuseppe Cipriani aprì per la prima volta le porte di quello che in famiglia chiamano da sempre semplicemente “il bar”.
Nato a Verona nel 1900, Cipriani trascorse l’infanzia in Germania, paese dove il padre emigrò alla ricerca di lavoro. Fu allo scoppio della Prima Guerra Mondiale che l’intera famiglia fece ritorno in Italia, con il giovane Giuseppe che dovette abbandonare il suo apprendistato da pasticcere per rispondere alla chiamata alle armi, arrivata per la sua classe sul tramonto del conflitto, nel 1918. Nella depressione che inghiottì il Vecchio Continente una volta tornata la pace, Cipriani si guadagnò da vivere facendo i più svariati lavori, dal barista al cameriere, sino a quando trovò un impiego durante la stagione estiva all’Hotel Europa di Venezia, dove presto gli venne affidata la gestione del bar dell’albergo dal direttore, che aveva intravisto in lui una rara empatia verso i clienti.
È il 1928 quando come ospite dell’hotel arrivò una facoltosa famiglia bostoniana, nella fattispecie un ragazzo di nome Harry Pickering e sua zia, in Italia per cercare di curare quello che era un principio di alcolismo. Insieme ai due c’era anche lo gigolò di quest’ultima, e tutti e tre, a discapito della ratio del loro soggiorno veneziano, erano soliti trascorrere diverso tempo al bar, intrattenendosi bevendo i cocktail preparati da Cipriani.
Dopo un aspro litigio la zia di Harry d’un tratto partì per tornare negli Stati Uniti, lasciando il nipote solo, e soprattutto senza un soldo per poter far a sua volta ritorno a casa. Non vedendo più però nemmeno il giovane recarsi al bar, Giuseppe iniziò a domandarsene il motivo, ed una volta appurato l’accaduto decise di aiutare colui che in quel momento non era solo un cliente, ma semplicemente un ragazzo lontano da casa e abbandonato dalla sua famiglia, e lo fece prestando al ventenne statunitense gran parte dei suoi risparmi, 10.000 lire, così da permettergli di saldare il conto dell’albergo ed imbarcarsi su di una nave che lo avrebbe riportato in America attraversando l’Atlantico.
Harry così ripartì, ma quello che poteva essere un addio divenne solamente un arrivederci, perché passata la Grande Depressione del 1929, due anni dopo, il giovane fece ritorno a Venezia, e non solo restituì a Giuseppe i suoi soldi, ma per ringraziarlo della cortesia diede a Cipriani altre 40.000 lire, così da permettergli, se avesse voluto, di aprire un suo bar.
Ed ecco spiegato il nome Harry’s Bar, un tributo a quel ragazzo che ne rese possibile la nascita, ma forse anche il tributo al romanticismo di una storia di gentilezza disinteressata verso il prossimo; un omaggio a ciò che qualcuno chiamerebbe quel destino che ha incrociato le strade dei due, facendoli incontrare davanti ad un bicchiere di liquore ai due lati del bancone di un bar.
Fu così che Cipriani affittò quello che era un ex magazzino di cordami di quattro metri e mezzo per nove in fondo a Calle Vallaresso, un luogo trovato dalla moglie Giulietta, e che rispondeva all’idea che Giuseppe aveva di quello che sarebbe stato il suo locale, un posto non di passaggio, ma uno dove si arrivava di proposito, esattamente ciò era la calle negli anni ’30, quando ancora non esisteva il ponte che la collegava a Piazza San Marco, o la fermata del vaporetto. Oltre l’Harry’s Bar a quei tempi infatti la terra degradava nell’acqua verde e grigia della laguna d’innanzi Punta della Dogana.
Da lì in avanti l’Harry’s entrò nell’immaginario collettivo del Novecento come un luogo dove regnanti, artisti, stelle del cinema, e ogni altro genere di celebrità del nostro tempo, potevano sentirsi a casa, trovando al suo interno un’atmosfera unica, famigliare, ed al contempo il lusso nell’attenzione ai più semplici dettagli. Questo a partire dalle posate, dall’arredamento, e da tutte quelle proporzioni che Giuseppe aveva minuziosamente studiato per creare quella sensazione che sarebbe rimasta unica fino ad oggi. Questo sino ad arrivare ai suoi piatti, o ai suoi drink, alcuni dei quali divenuti famosi in tutto il mondo per essere stati inventati da Cipriani stesso proprio fra quelle mura.
Stiamo ovviamente parlando del Bellini e del Carpaccio. Il primo è un drink a base di prosecco e succo di pesche bianche che Cipriani inventò nel 1948, e che prese il nome dal Giambellino, al secolo Giovanni Bellini, un pittore le cui opere erano quell’anno esposte a Palazzo Ducale per una mostra antologica. Giuseppe rivide nel rosa delle pesche le tonalità che si sfumavano nei quadri del pittore rinascimentale, e per tal ragione scelse questo nome per un drink che diceva essere la celebrazione di una pace che per tanti anni era mancata alla città e alla nazione durante la Seconda Guerra Mondiale.
È proprio a metà degli anni ’40 che ritroviamo peraltro l’unico momento in cui l’Harry’s Bar fu costretto a chiudere, sequestrato dal regime e trasformato in una mensa per la marina militare; ma proprio questo momento è forse estremamente utile per far capire l’essenza di questo posto. Fu allora infatti che quella dozzina di clienti più cari iniziarono a recarsi a casa di Giuseppe, che insieme alla moglie Giulietta riservava loro le stesse attenzioni, perché l’Harry’s è qualcosa di più di un locale, di ciò che mangi, o di ciò che bevi, è quell’anima che percepisci nella sua atmosfera, nel vociare dei suoi clienti o nella gentilezza dei suoi camerieri, così come nel rumore delle stoviglie che arrivano dalla cucina mentre i cuochi preparano quelli che sono i piatti di un’intramontabile tradizione. Ogni suo elemento è inscindibile dall’altro: l’Harry’s Bar è la sua atmosfera, e questa è l’esatto punto di incontro fra una serata di gala ed il calore della tavola di casa propria in una domenica di festa.
Un rimando all’arte poi lo ritroviamo anche nel piatto di carne cruda che venne battezzato Carpaccio, questo perché il rosso della carne ricordava a Cipriani quello dei teleri di Vittore Carpaccio, un altro artista della Serenissima vissuto a cavallo fra il XV ed il XVI secolo. Leggenda vuole che Cipriani inventò il piatto per soddisfare le voglie di una delle tante contesse che frequentavano il ristorante, e andò quindi a tagliare finemente del controfiletto guarnendolo con una salsa di senape e maionese, un intingolo che in cucina definivano “universale”, perché andava bene sia sulla carne che sul pesce.
La fama del Carpaccio e del Bellini arrivò ad essere tale che tutt’oggi rischia di superare quella di coloro da cui hanno preso il nome, tanto che il direttore generale della Pinacoteca di Brera, James Bradburne, ha deciso di far inserire sotto i quadri di questi grandi maestri veneziani due pannelli che raccontassero l’intreccio della loro storia con quella della “stanza” di Calle Vallaresso.
Un fil rouge, quello che lega l’arte con l’Harry’s Bar, che ci porta a citare uno dei suoi clienti più affezionati, Ernest Hemingway. Lo scrittore, che divenne poi un caro amico di Giuseppe, parlando del suo romanzo Di là del fiume e tra gli alberi, disse che il libro prese forma in una specie di nebbia creativa proprio all’Harry’s, definendolo una piccola stanza al cui interno si rinviene però un microcosmo che racchiude tutta la grandezza e la bellezza di Venezia, la stessa che il romanziere americano aveva ritrovato nei versi di Ruskin, Sinclair Lewis e Byron. Hemingway era così di casa in Calle Vallaresso che inventò un cocktail tutt’ora fra i preferiti dei suoi habitué, il Montgomery. Questo nome l’autore di Fiesta lo scelse per via dell’omonimo generale d’Albione, Bernard Law Montgomery per l’appunto, il fine stratega britannico che durante il secondo conflitto mondiale era in grado di far trovare le sue truppe spesso a combattere in superiorità numerica rispetto al nemico, ecco perché nel drink si rinvengono quindici parti del liquore inglese per antonomasia, il gin, e solamente una di vermouth, il tutto servito in un piccolo bicchiere cilindrico da 60 grammi rigorosamente ghiacciato.
Tutti sono passati almeno una volta per l’Harry’s Bar, Georges Braque, Peggy Guggenheim con suoi look eccentrici, Charlie Chaplin, oppure Orson Welles, che iniziava i suoi pranzi con boccali di birra pieni di champagne e che li finiva con fiumi di whiskey. Poi Andy Warhol, Pedro Almodovar, Giancarlo Menotti, Katherine Hepburn, Gary Cooper, Frank Lloyd Wright, Arturo Toscanini, accademici, capi di Stato, rapper, stilisti, filosofi, rockstar, intellettuali, sino ad aristocratici di ogni dove come il barone Rothschild, il quale diceva “Non posso sapere quale sia il miglior ristorante al mondo, perché non ho avuto la fortuna di visitarli tutti. Però posso dire una cosa. C’è un ristorante nel quale mi sono sempre sentito come a casa mia: l’Harry’s Bar di Venezia”.
Gran parte delle persone che oggi varcano le porte del locale però non lo fanno sperando di intravedere qualche star del jet-set intenta a sorseggiare un Vodka Roger, molti di loro desiderano solo incontrare colui che gestisce il locale ormai da più di sei decenni, Arrigo Cipriani, il figlio di Giuseppe, come lui stesso si definisce “l’unica persona ad aver preso il nome da un bar e non viceversa”. In realtà il Sig. Cipriani, che ha compiuto 90 anni lo scorso 23 aprile, si sarebbe chiamato proprio Harry, se non fosse stato che nel suo anno di nascita, il 1932, le leggi fasciste proibivano agli italiani di dare ai figli nomi anglosassoni.
Arrigo Cipriani non condivide solo il nome con l’Harry’s bar, ne è forse la sua stessa estrinsecazione, perché come il suo locale è anch’egli semplice ed elegante allo stesso tempo. Se oggi nel 2022 si andasse a chiedere ad un passante per le strade di Hong Kong abbagliate dai neon, o a qualcuno fermo ad aspettare un taxi sui marciapiedi di Manhattan, di nominare un veneziano dei nostri giorni, la risposta ragionevolmente sarebbe «Arrigo Cipriani». Molti anzi assocerebbero Cipriani a Venezia forse anche prima della Basilica di San Marco o del Ponte di Rialto, questo perché Arrigo, e come lui l’Harry’s, sono i fieri custodi di quasi un secolo di storia di questa città, o quantomeno di una delle sue parti più brillanti. E forse proprio per questo motivo nel 2001 il Ministero dei Beni Culturali ha dichiarato l’Harry’s Bar patrimonio nazionale; ma la storia dei luoghi, si sa, la fanno le persone.